sabato 5 marzo 2016

Agostino e un destino di Sogno

La Fabula di De Romanis

http://wsimag.com/it/arte/19707-intervista-ad-agostino-de-romanis

Intervista ad Agostino De Romanis

Pittore dei Sogni

Agostino De Romanis. In braccio alla divinità, 2002, olio su carta rintelata, cm. 60x80
Agostino De Romanis. In braccio alla divinità, 2002, olio su carta rintelata, cm. 60x80
5 MAR 2016 
di 
«Nel “Paese delle Meraviglie” di Agostino De Romanis, si giunge solo dopo aver attraversato il mare dei colori. Una barca a vela ne è il mezzo, e approda in una baia dall’aspetto tropicale: sulla terra infuria un vento onirico». Questo è il ritratto del mondo di Agostino magicamente dipinto da Arnaldo Romani Brizzi, una fotografia delle caratteristiche essenziali della sua pittura: il colore, la libertà e l’invenzione.
Se si osservano i suoi dipinti come fotogrammi che scorrono lentamente in un film vedremo paesaggi fiabeschi in cui emergono intrecci di corpi, miscugli di facce, figure mitologiche e luoghi leggendari e tutta una pletora di maghi e gnomi, regine ed eroi, animali e oggetti sacri, ingredienti di quell’altrove che il nostro artista ricrea seguendo il vento del suo bisogno di libertà.
È lui stesso ad aprirci le porte dell’anima svelandoci i segreti racchiusi nelle sue tele attraverso questa intervista gentilmente concessa nel suo accogliente e museale studio veliterno.
In principio era il “colore”: come si è evoluto l’uso del colore dai tuoi primi passi artistici fino alle brillanti tinte del periodo indonesiano?
Il colore negli anni accademici aveva la presunzione di denunciare gli eventi di quegli anni, gli anni ruggenti della mia vita, il ’68, quando la crisi era generale e la forza giovanile ci spingeva a manifestare ed essere in prima fila. All’epoca i colori erano dei grigi potenti, forti, accompagnati dai neri, da tutti quelle tinte cupe che facevano emergere la verità di quel periodo. Il cambiamento è avvenuto dopo il primo viaggio in Indonesia, laddove il mondo era diverso, più tranquillo. Era un universo calmo, ricco di fascino: la natura, i colori espressi dal mare, dal cielo, dai costumi delle variegate tribù, hanno fatto sì che i grigi passassero in secondo piano. Sono andato sempre più a ricercare e immortalare sulle tele dei colori brillanti, quei verdi mistici della natura, degli alberi, dei fiori e di tutto ciò che ci circondava: era proprio il colore del cielo che faceva filtrare delle tinte meravigliose, quasi iridescenti.
Sei nato nel dopoguerra, in una patria investita dal dolore: come è stato influenzato da questo imprinting il tuo pensiero artistico?
Ha influito di certo però probabilmente non me ne sono accorto. La ricerca era basata su ciò che era il mondo circostante, sulle notizie che arrivavano: i primi dipinti li ho elaborati attraverso le notizie del giornale radio. Ascoltando la radio cercavo di tradurre le notizie in qualcosa che potesse essere significativo per la notizia stessa. La notizia diventava un dipinto da collocare in una serie utilizzata per contestare quello che era il dopoguerra, quello che erano i movimenti, quello che era un inizio di confusione…
Cosa ha significato l’incontro con Italo Mussa nel tuo percorso pittorico?
È stato un incontro meraviglioso perché il gruppo della Pittura Colta, che annovera nomi eccellenti come Carlo Maria Mariani e Alberto Abate, era un gruppo emergente degli anni ’80 sorto contemporaneamente ad altri movimenti, come la Transavanguardia di Achille Bonito Oliva. C’era una contrapposizione di artisti che rielaboravano il passato attraverso un filtro mentale, io invece traducevo gli stimoli in dipinti con una sensibilità poetica rispetto alla iniziazione della Pittura Colta.
Quali caratteristiche del movimento della Pittura Colta ti appartengono ancora oggi?
Solo il ricordo memoriale delle opere eseguite, nessun’altra.
Hai illustrato La Gerusalemme Liberata di Tasso con passione e coinvolgimento, qual è stata la sfida più ardua di quest’impresa?
La sfida è stata proprio quella infernale, cioè dipingere il momento in cui la fede cristiana traballa e il demonio si insinua nel territorio cristiano sotto forma di donna nuda. Allora diventa una potenza immane contro i cristiani che cominciano a cedere le armi e ad abbassare gli scudi…
«Dopotutto erano solo mattoni nel muro», cantavano i Pink Floyd: quali muri dell’esistenza ha superato la tua pittura?
Quelli che possiamo vedere attraverso le illustrazioni di Carceri e Vie di Fuga, laddove il carcere è quello esistenziale con cui l’uomo deve convivere. Il bambino è già in un carcere perché non può liberamente giocare, non può allargare le sue visioni mentali. La via di fuga non esiste, essa è un’utopia, l’uomo non può uscirne proprio perché incatenato al carcere dell’uomo stesso…
Quali sono i “Limiti” che maggiormente influenzano la nostra realtà secondo la tua visione poetica?
Il compromesso esistenziale in tutte le sue sfaccettature.
Nella tua filosofia la creazione ha origine dai simboli numerici. Qual è il tuo numero favorito e perché?
Lo zero perché è universale, perché c’è tutto dentro e non fuori: esso è l’inizio, è la fine. Zero è il numero di Dio, solo lui può chiudere il cerchio…
Gli elementi sono stati oggetto di una tua mostra Acqua, Aria, Terra, Fuoco: dove ti senti più a tuo agio?
Direi in Terra, però l’elemento primordiale più importante è l’acqua, ma senza l’aria che faremmo? In realtà non staremmo in Terra. Il fuoco poi è distruttivo, purificatore, quindi necessario…
Hai dipinto nel tuo Grande Cammino un quadro intitolato Il Trionfo della Chiesa: sei veramente convinto che nella realtà la Chiesa abbia trionfato? Perché?
È l’uomo che trionfa se è dentro la Chiesa. La Chiesa in sé e per sé lascia delle perplessità che inducono comunque alla tentazione. Non arriva mai alla risoluzione della verità, l’uomo la cerca, vi anela, la trova? Non lo so… La troverà se avrà una grande fede. Che scaturisce da che cosa? Dalla Chiesa? Non lo so…
Nel tuo altrove inconscio si deformano i luoghi e si sfigurano i contorni: qual è la verità celata?
È che nei contorni e nelle figure drammaticamente deformate dentro c’è la verità, dentro c’è la bellezza e dentro c’è l’immagine che nella mente dell’artista diventa prepotentemente salvata solo dalla memoria.
I tuoi dipinti sono spesso permeati da un racconto fiabesco e mitico, quali forze entrano in gioco nella tua fiaba per creare l’armonia delle forme?
Sicuramente la fantasia gioca un ruolo fondamentale. E poi la purezza dell’artista che vuole essere ancora bambino per credere in qualcosa che non morirà mai se tramandato e raccontato. Nel quadro sono un insieme di elementi che creano armonia: forma, colore e luce. Quando essi sono in equilibrio allora c’è armonia…
Quale aspetto dell’Indonesia, e di Bali in particolare, ti ha rivelato la magia di questa terra?
La magia è scattata quando ho visto la vegetazione di quel posto, le palme, i frutti, i fiori: era tutto differente rispetto al nostro mondo e quella straordinaria diversità mi ha travolto.
“La ritualità”, elemento fondamentale delle tue opere orientali, secondo Sgarbi «è il surreale teatro mediante il quale le civiltà arcaiche riescono ancora a rappresentare il senso del sacro»: è «il sacro, il mistero sfuggente del mondo» che fa il pittore De Romanis «sacerdote di altri sacerdoti?». Quale messaggio vuole divulgare il tempio dei tuoi quadri?
L’incontro con altre civiltà, il ponte ideale tra l’Occidente e l’Oriente, quell’incontro di pensieri, di emozioni, di rispetto delle diversità che distinguono le nazioni interessate.
L’Universo “Donna” è molto presente nei tuoi dipinti, quali facce femminili ritrae e svela il tuo pennello?
Le persone più care perché le conosci meglio ed escono fuori spontaneamente sulla tela. È quasi una ritualità del gesto perché quell’universo è già entrato dentro di te e ne cogli meglio il tratto, la luce, il colore, la femminilità… Io ricerco l’interiorità della donna che viene rappresentata sempre nella sua bellezza… La sua parte più intima è difficile da portare su tela, solo talvolta ci sono riuscito…
Dipingi gli alberi in connessione con l’uomo, come ci possono aiutare questi grandi alleati dell’anima?
Ci offrono l’aria per respirare, il loro splendore, la bellezza del germoglio, l’incanto della fioritura e non si tirano mai indietro perché rimangono fissi dove sono nati e sembra che ubbidiscano all’uomo…
La Natura è la casa di Dio: è un Dio che tutto giudica e punisce o è una divinità pacificatrice che crea equilibrio tra opposte tensioni?
È un Dio del perdono, è un Dio dell’accoglienza, che guarda l’uomo, lo commisera e lo perdona proprio perché è una sua creatura.
In che cosa hai realmente Fede?
Nell’Uomo.
Come affronti lo sfacelo politico e il disfacimento sociale del mondo contemporaneo nelle tue tele?
Denuncio continuamente nelle mie tele tutto ciò che accade senza la presunzione di attuare una denuncia politica, perché la politica è una cosa che ti scivola tra le mani, non sai mai se stai da una parte o dall’altra. Io sto con l’uomo, cerco di rappresentare tutto ciò di cui l’uomo ha bisogno.
Dove giungerà in futuro la tensione del tuo sguardo?
Vorrei ancora saper intravvedere ciò che il futuro ci riserva e arrivare a guardare le nuove prospettive che si propone domani l’Uomo… È questa la fiaba di Agostino, o forse la sua fabula, un desiderio forte di vedere riemergere dallo sfacelo che ci circonda la figura di un uomo nuovo. C’è una canzone di Gaber – Luporini rappresenta questo desiderio:
Se ci fosse un uomo
un uomo nuovo e forte
forte nel guardare sorridente
la sua oscura realtà del presente
.
Una canzone con un finale che piacerebbe a De Romanis, uno spazio vuoto da reinventare come la sua tela bianca:
Uno spazio vuoto
che va ancora popolato.

Popolato da un bisogno
che diventa l'espressione
di un gran senso religioso
ma non di religione.

Popolato da un uomo
cui non basta il crocefisso
ma che cerca di trovare
un Dio dentro se stesso
.
Una canzone che riporta alla sua fabula, infatti, come sostiene Domenico Guzzi «La fabula è immaginazione. La fabula è trasgressione. La fabula è abisso e labirinto. La fabula è sogno».
Per maggiori informazioni: www.deromanis.it

mercoledì 17 febbraio 2016

N E S S U N O DOVEVA SAPERE di Rita Sanna

da sx: Gemma Azuni, Antonio Maria Masia, Rita Sanna, Elena Cordaro
di Patrizia Boi
Il 13 febbraio scorso è stato presentato l’ultimo romanzo di Rita Sanna presso il Palazzo Unar, Sede del Gremio dei Sardi che ha promosso l’iniziativa in collaborazione con la Società Umanitaria.
Dopo il saluto iniziale al numeroso pubblico presente   e una breve introduzione di Elena Cordaro dell’Umanitaria, ha preso la parola Antonio Maria Masia, Presidente del Gremio, che dopo aver presentato l’attore di teatro e di cinema Alex Pascoli incaricato della lettura di alcuni pagine del libro, si è soffermato su vari aspetti dello stile e del contenuto dell’opera.
L’opera segue altri romanzi, due dei quali, già noti al pubblico del Gremio e dell’Umanitaria: il primo, “Michelina” del 2008, il secondo “Ippolita” del 2013.
Michelina, è una storia scabrosa e terribile che tratta il complesso tema dell’incesto, della violenza sulle donne, raccontata con dignità e sobrietà con uno stile attraverso il quale la Sanna riesce ad attivare la riflessione sociale.
Ippolita, tratta della “solitudine” non solo di una Donna, ma dell’uomo stesso quando attraversa la fase della vecchia. Un racconto che mostra come si possa affrontare il declino fisico attraverso nuovi incontri, la solidarietà e l’affetto.  
Questo ultimo libro di Rita Sanna si occupa, invece, di un argomento attuale, soprattutto, in questi giorni in cui si decide in Parlamento la legge sulle unioni civili e sulla adozione co-parentale, sulle famiglie arcobaleno, utero in affitto e maternità surrogata… l’eterna vicenda  dell’Omosessualità e delle sue conseguenze nelle relazioni interpersonali, famigliari, politiche, di costume, delle tradizioni e della cultura.
Il tema della Diversità di tendenza sessuale è certo arduo da regolamentare: la Diversità  è spesso vista come fattore di disturbo, atto a sconvolgere le verità costituite e in qualche modo l’ordine sociale.
Tutto ciò che è Diverso, infatti, per sesso, cultura, costumi, colore della pelle, condizione sociale, religione fa vacillare le nostre certezze, e spesso ci porta a reazioni confuse, discriminatorie e razziste.
Non dimentichiamo, rammenta Masia, che i più grandi eccidi e genocidi sono stati compiuti dall’uomo contro l’Uomo stessosulla base di convinzioni infondate. Il tema della Omosessualità di Rino, il protagonista di questo nuovo libro di Rita Sanna,  è indagato in maniera semplice e chiara e conduce ad una sottile riflessione.
Il libro poteva essere intitolato Rino, seguendo il filo dei nomi (Michelina, Ippolita), invece Rita ha scelto un titolo che ha già incorporato il senso del racconto: Nessuno doveva sapere in quel piccolo e sperduto paese della Sardegna intorno agli anni 70.
Perché quel “vizietto” che è meglio non nominare, è depravante e deve restare confinato entro le pareti domestiche, vissuto come una disgrazia da una madre che non capisce, non accetta e non comunica. Sul Diverso in un luogo chiuso nelle sue convinzioni si riversa solo disprezzo, fastidio, odio e una tremenda paura.
Oltre a questo accattivante titolo, il libro presenta una copertina che ritrae un quadro del grande pittore norvegese Eduard Munch, maestro nel rappresentare tormenti, dubbi e sofferenze dell’Uomo moderno di fronte al dolore, alle disgrazie, alle difficoltà. Titolo e copertina efficaci quanto mai.
Masia fa notare, come Rita, riesca a coniugare semplicità, chiarezza e capacità di sintesi. La sua scrittura non è mai ridondante di aggettivi e di complicati ragionamenti retorici, ma conduce subito al nocciolo del discorso favorendo nuove riflessioni. La lettura è scorrevole, forse grazie alla sua esperienza di insegnante, di cui Rita riesce ad avvalersi senza mai salire  in cattedra. La struttura del libro è fatta di brevi o brevissimi capitoli che si snodano con fluidità.
Nel testo Masia ravvisa due aspetti nuovi.
In primo luogo, Rita, ricorre, per la prima volta, ad alcune espressioni in sardo per esprimere considerazioni, frasi ed epiteti di offesa e disprezzo verso gli omosessuali: infatti nella trama del racconto queste frasi rendono meglio il clima ostile ed i preconcetti di quel momento storico su tutta la vicenda.
In secondo luogo, sulla dinamica e tempistica del racconto, sempre avvincente allo scorrere di ogni pagina, Rita opera sin dalla prima pagina, un capovolgimento rispetto al normale percorso  della narrazione, anticipandone  l’esito finale.
A questo punto l’attore  Alex Pascoli legge con trasporto e partecipazione alcuni brani tratti dall’opera.
Si parte, infatti, dal tormento degli ultimi attimi di vita del protagonista, la cui agonia funge da incipit su cui si costruisce tutta la trama, sapendo che, se pur si è svelato il finale, l’intreccio si dipana, comunque, lasciando il lettore curioso dell’avanzare del dramma di Rino e delle persone coinvolte nel suo tragico destino.
Vengono introdotti  da Masia gli altri personaggi fra i quali, la madre di Rino, Donna Fellica, rigida, severa, conservatrice, segnata da una giovanile vedovanza, con  il carico di due figli da crescere, e il giovane Don Fausto,  nuovo sacerdote appena arrivato come parroco del suo  paesino.  Bello e riflessivo, ricco di comunicativa e sensibilità, inizia per primo ad intuire il dramma di Rino. Anche lui, in ogni modo, è incapace di alleggerire il peso di quest’uomo chiuso nel suo segreto. Del resto, la stessa Chiesa, da sempre, non assolve i devianti dalla retta via, se non accodandosi al generale giudizio spezzante e offensivo nei confronti dell’omosessualità.
Rino, alle soglie della piena maturità e con una posizione sociale e  professionale di rilevo nel suo paese – direttore didattico – si trova improvvisamente costretto ad ascoltare i suoi desideri che si materializzano quando Rita introduce il personaggio di Bastianeddu. Questo ragazzo bello e grezzo, incolto ma sensibile, rimane affascinato dalla personalità di  Rino. In Rino c’è la paura e i dubbi di un futuro ignoto e rischioso, ma emerge la consapevolezza che deve accettare il suo essere omosessuale, la sua Diversità.
Alex Pascoli, su invito del relatore,  legge con commozione la descrizione del primo incontro fra Rino e Bastianeddu, in una piazza della grande città vicina al suo piccolo paese.
In quel paesino, però, non c’è posto per una passione scabrosa, il contesto è fatto di profonda arretratezza culturale, di mancanza di dibattito, di ignoranza.
L’attore riesce a trasmettere con una interpretazione coinvolgente il pathos delle scene principali della storia. 
Per la madre di Rino c’è la colpa di aver cresciuto un figlio diverso e la scelta del silenzio.
Il fratello maggiore Costantino che rientra dalla Germania per riesce solo a dire: se l’avessi saputo prima…
Poi ci sono le voci offensive dei paesani che ossessionano il cuore ed il cervello di  Rino (maledetto pederasta, frocio di merda, spazzatura, scopati tuo fratello…, pur nel conforto delle parole di Don Fausto: non è colpa tua, il tempo non è ancora maturo per quelli come te…
E ora, noi tutti, possiamo dire che il tempo per quelli come Rino è maturo?
Con questa domanda il Presidente Masia lascia la parola al pubblico, dopo essersi fatto apprezzare per un intervento degno dei migliori critici letterari.
Durante l’incontro faccio attenzione a un fatto importante: la madre di Rino rappresenta la figura canonica della donna sarda timorata di Dio.  Una donna tutta casa e chiesa che partecipa nella sua essenza della chiusura mentale dell’ambiente. Per lei il fatto di avere un figlio “finocchio” rappresenta una insopportabile sciagura. Per questo tipo di donna, la disgrazia non è espressa solo dall’omosessualità, ma dalla sessualità stessa.
Il peccato capitale della Lussuria, la colpa attribuita ai primi peccatori della storia, sono stati il cavallo di battaglia della programmazione negativa attuata dalla Chiesa, a scapito di uomini e donne già limitati dalla propria ignoranza. I limiti imposti, in realtà, non servono a eliminare davvero le naturali pulsioni dell’uomo, ma le fanno esplodere, con i divieti, in vizi ancora più assillanti. Il potere del divieto è davvero quello di far scatenare il desiderio proprio per ciò che è più vietato, tant’è che proprio negli ambienti ecclesiastici si nascondono discreti livelli di omosessualità.
Il peccato, la colpa, il giudizio, sono retaggio di quella parte più oscurantista della Chiesa, quella che ha creato roghi e bruciato le donne come streghe, le guaritrici, le profetesse, le veggenti, le antiche sacerdotesse, cioè le “prostitute sacre” dell’antichità. Benvenuta pertanto l’espressione di Papa Francesco in premessa al libro di Rita: chi sono io per giudicare?
Voglio ricordare, invece, come racconta Raimondo Demuro ne I racconti della Nuraghelogia, che le donne e gli uomini sardi avevano costumi più liberi quando durante la festa dei celibi: “la gioventù andava, uomini e donne insieme, al ruscello e lì si spogliavano nudi per farsi il bagno e poi facevano il ballo tondo… La Nuraghelogia teneva nel massimo conto il rispetto dei bisogni sessuali e perciò insegnava a usare, sin da piccoli, lo strumento che la natura ha dato all’uomo e alla donna…”.
In realtà l’atteggiamento moralistico è venuto dopo e non ha fatto altro che disallineare il corpo dell’uomo dalla sua anima e dal suo spirito, introducendo nella sua coscienza delle distorsioni che hanno creato conflitti, malattia e pensieri aberranti.
La novità che ha introdotto Rita in questo suo libro, è la figura giovane e compassionevole del parroco, più pietoso rispetto al sacerdote canonico che fa prediche moraleggianti e che minaccia la punizione divina al minimo discostarsi dai Comandamenti.
Queste mie considerazioni, sono anche il nocciolo dell’intervento fatto da Gemma Azuni, che ha raccontato la sua esperienza di assistente sociale a contatto con tutte le diversità. Gemma ha ricordato, inoltre, un episodio della sua adolescenza, dove il giudizio pesante sui gesti liberi di due giovani donne,  limitava il rapporto con la loro femminilità. La scelta di partire era necessaria, per lei, per sua sorella, per le donne come loro, che vogliono essere libere.
In conclusione mi è rimasto impresso lo sguardo silenzioso e curioso di Rita Sanna che osservava i nostri dibattiti, le nostre considerazioni, le nostre dissertazioni sul giudizio, sulla colpa, sulle distorsioni come se pensasse: “allora sono riuscita a farli riflettere davvero”.


2 Commenti to ““NESSUNO DOVEVA SAPERE”: LA PRESENTAZIONE DEL LIBRO DI RITA SANNA A ROMA CON L’ASSOCIAZIONE DEL GREMIO DEI SARDI”

  1.   Rita Sanna Says:
    Un grazie enorme,tutto sardo ,a PATRIZIA BOI!
  2.   Gemma Azuni Says:
    Bellissimo libro che consiglio di leggere.